L’origine del nome “Capo Peloro”

L’origine del nome “Capo Peloro”

Il nome che identifica la punta dell’estremo nord-est della Sicilia, Capo Peloro, ha un’etimologia particolare che negli anni passati ha diviso, in base alla loro opinione, storici, archeologi e geologi. Il nome deriva dal greco e, tradotto letteralmente in italiano, significa prodigio. Esso identifica quindi qualcosa di maestoso, gigantesco, addirittura mostruoso, e rimanda all’idea di rapido movimento e mutevolezza. Il toponimo, riferito al luogo che tutti conosciamo, compare nelle Metamorfosi di Ovidio, ne La guerra del Peloponneso di Tucidide e nell’Eneide di Virgilio. Una volta applicato al contesto geografico dello Stretto di Messina, l’equivalente italiano della parola greca è abbastanza pertinente, sia dal punto di vista storico che da quello geologico. Dal punto di vista storico, secondo anche le leggenda ed il mito, esso è stato popolato da esseri come divinità guerriere, eroi eccezionali, creature gigantesche e mostri marini, mentre dal punto di vista geologico la zona è spesso di fenomeni geofisici, un tempo considerati mirabilia, come i movimenti delle faglie, i quali spesso sono all’origine di eventi come forti attività vulcaniche o terremoti, o anche ai refoli, i venti tipici del luogo.

I miti e le leggende che hanno sede nell’area dello Stretto di Messina hanno tutte una connotazione equivalente al significato della parola, ma quelli che gli storici identificano come i “fondatori” del toponimo sono il gigante Peloro e la ninfa Pelorias. Peloro, oltre ad essere un gigante, era anche il pilota della nave di Annibale, il quale, ritenendosi ingannato in quanto proveniente da Occidente e viaggiando verso lo Stretto, non vide alcun passaggio, poiché le coste della Calabria e della Sicilia apparivano unite, e fece uccidere il suo pilota. Poco dopo però si accorse che il passaggio in realtà esisteva, così come aveva assicurato, fino al momento della sua morte, Peloro. Così, dopo questo fatto, Annibale, per immortalare il suo pilota ingiustamente ucciso gli intitolò l’estremo capo nord-orientale dell’isola. Una statua raffigurante egli vi si scorgeva sul mare e serviva da segnale per i naviganti. Quest’origine del toponimo è stata però immediatamente messa in discussione in quanto trecento anni prima della venuta di Annibale in Sicilia era già diffuso e si praticava il culto della dea e ninfa Pelorias.
Essa era una ninfa che abitava tra le paludi della zona, per questo chiamata anche Signora delle paludi, e la quale, secondo la tradizione mitica, sarebbe stata anche una dea madre, dall’aspetto gigantesco, posta a difesa del territorio e sostenuta, nella sua impresa, dal guerriero Pheraimon, uno dei sette figli di Eolo. Alcuni storici la ritengono anche come la personificazione di Gaia Pelore, la Grande Madre Terra dei Greci, stessa divinità che diede a Crono la falce, conosciuta con il nome di zankle da cui ho poi preso il nome la città di Messana Zancle, ovvero Messina, con la quale egli evirò il proprio padre. Essa appariva sia come incarnazione del principio più inumano e selvaggio della natura che come una ninfa bella ed amabile, ma ciò che rende davvero importante la sua figura è la raffigurazione di essa nelle monete coniate dalla zecca di Messana Zancle nel periodo tra il 461 ed il 288 a. C.. In esse la ninfa è rivolta verso sinistra, con i capelli raccolti sulla nuca e trattenuti da una ghirlanda di foglie di canna con il rosa a simboleggiare la zona paludosa nella quale essa abitava. Nel rovescio era raffigurato Pheraimon armato di scudo e lancia nell’atto di incedere verso sinistra. In altre monete essa era raffigurata anche con delfini, conchiglie e mitili, e soprattutto in una di queste era presente un quadrato di linee incrociate il quale, secondo alcuni archeologi, raffigurava il tempio segreto della dea nascosto tra i canneti dei pantani.

Un elemento che identifica in modo particolare la ninfa Pelorias è una conchiglia detta Pinna nobilis, molto diffusa nell’area dello Stretto e la quale, per dimensioni, la più grande del Mediterraneo. L’archeologo roveretano di nascita ma siracusano d’adozione Paolo Orsi ritrovò nella penisola di S.Raneri una materiale di ceramiche recante la sua raffigurazione. Essa serviva soprattutto per tessere un pregiato tipo di tela di nome bisso, molto apprezzato dai Fenici e dai Greci. La ninfa portava su di se una veste di bisso risplendente come il sole

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Foto di Gabriele Gemelli

Fonte: bit.ly/2DujN5G

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